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Josef Alber, Never before
Con la puntata speciale di oggi, dedicata alla Pasqua, Uomini e Profeti termina la lettura dei Vangeli. Tutta la vicenda cristiana nasce dai racconti delle apparizioni del Risorto. Ma i quattro Vangeli ne danno narrazioni discordanti. Come interpretarle? Come vivono oggi uomini e donne la promessa della resurrezione? Come un evento mitologico o una prospettiva di verità? E come interpretare il fatto che tutti i Vangeli attribuiscono alle donne il primo annuncio della resurrezione? A parlarne oggi con noi tre interpreti del testo: Marinella Perroni, Marida Nicolaci, Cristina Simonelli; e una poetessa Roberta Dapunt, dalla forte e problematica ispirazione religiosa.
Che torni pure il sole di Pasqua.
Per risorgere il Cristo
dentro il mio spirito in confidente
Roberta Dapunt
Cristina Simonelli - Teologa, Presidente del Coordinamento Teologhe Italiane
Roberta Dapunt - Vive in val Badia a Ciaminades. Ha pubblicato La terra più del paradiso, Einaudi ed. 2008
TRISTEZZA DELLA RESURREZIONE
Tra grumi di nebbia, rossi, immensi,
mi ammiccava il sole ingannatore,
quando così dissi:
Alzati e cammina.
Forse a Budapest, forse altrove.
Ricordo poche cose
Del mondo che fu,
ma tristemente son risorto.
Si sono aperte le pietre del mio sepolcro,
fumava il Golgota; uscii
risorto, incerto,
dalla profonda tomba di drago del Passato.
E, quale uomo di poco sangue,
andai a cercare
i nuovi apostoli.
La tempesta e i boschi mugghianti del Tátra
Furono i miei Tommasi;
affondarono le dita
nelle labbra delle mie ferite.
Volavano le nebbie,
e oltre le nebbie,
guasto, dimentico,
lasciai il Passato.
E dissi ancora: Io non so
chi sono; vivo o sono vissuto?
Sono il nome di qualcuno
o erede del triste nome
d’un morto?
La sera porta la mia febbre;
la posta, la mia posta,
come se tutto accadesse
da tanto tempo.
Ma è venuto il mattino, tremante di freddo;
né sapevo da quale maggese
di ricordi
veniva quel mattino.
Toccavo le mie ferite;
dolevano, bruciavano orrendamente;
ma chi me le inferse, e quando?
Dove ero passato?
Vissi già dunque? Ero già vissuto?
Chi piangerà per me?
Chi sono? E dove vado?
Camminai incerto: dei salmi slavi
risuonavano nelle pinete:
qual era il salmo
che sapevo cantare
una volta, con voce gentile?
Io taccio soltanto,
poiché ho tutto dimenticato.
Sento altri venire da lontano.
Ma il Lontano dov’è, dov’è il Vicino?
E dove, i luoghi di mezzo?
E’ come se non fossi venuto mai;
soltanto, sono qui:
Occhi, lettere, telegrammi,
non so perché vogliano me.
Né so perché mi guardano
volti indagatori.
Non c’è sul mio volto una scrittura antica;
la grande leggenda
delle lotte antiche si è cancellata
dal mio vecchio volto, dal mio vecchio capo.
Io sono
come un amore cominciato male
o neppure cominciato.
Talvolta, una bionda fanciulla,
cedro giovane e santo,
s’aderge superba dinanzi a me,
nel giorno lucente;
stringendo i denti, tacito
fuggo da lei.
E’ ricordo o dolore soltanto?
Se vivessi, se m’amasse,
se esistessi. Penso:
potrebbe essermi figlia.
Non so che cosa mi tenga sul tetto,
schiavo o sonnambulo;
sì che pur io guardo tremando
come se fossi uno strano, lontano.
Ciò che dico, è freddo
come voci di tempesta
urlante in una caverna di gelo.
In qualche luogo, tra le nevi,
su qualche nevaio lontano si è perso
il mio essere primo.
Guai a chi risorge
E la propria vita non sente.
La sua vita è ciancia di burattino
e burattino lui stesso:
Domanda, tentazione, mistero.
Io aspetto che qualcuno mi chiami,
con bocca dolce e calda
mi sussurri chi sono.
Qui nella valle del Tátra
Sta un lago: chiaro,
selvaggio, puro.
Io vi cerco i secoli, la mia vita,
i canti che spalancano le tombe.
Cerco la mia prossimità,
il Tempo alato,
lo specchio magico
in cui qualcuno mi ravvisi.
La Vita si ferma,
so che non esiste più nulla;
nessuno vive
e nulla è vero.
Un vecchio volto rugoso ghigna dal lago:
non so chi sia.
Ma sono risorto, ahimè, sono risorto.
Endre Ady