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Daniela Ranieri - il Fatto Quotidiano

Daniela Ranieri - il Fatto Quotidiano

Quando il diavolo si palesa al protagonista del Doctor Faustus di Thomas Mann dentro a un salotto di Palestrina, una delle prima cose di cui lo canzona è di non “tueggiare” con nessuno. Intende rinfacciargli di essere talmente freddo coi suoi simili che usa il filtro del “voi” per tenerli lontani (in fondo è un musicista misantropo sifilitico, e pazzo al punto da parlare col diavolo). Anche il diavolo di Dostoevskij, che compare su un divano di Ivàn ne I fratelli Karamazov, esordisce sarcastico: “Mi fa piacere che abbiamo subito cominciato a darci del tu”. A questa scena imbarazzante e comica ripenso ogni qualvolta dei perfetti sconosciuti mi danno del tu: chi siano sati ispirati dal diavolo?

Ormai è una piaga sociale.

Mi danno del “tu” i servizi di e-commerce quanto acquisto qualcosa sui loro siti (“l tuo ordine è stato spedito”), i social network nelle notifiche, gli sms alla farmacia, gli avvisi nelle Asl, i call-centeristi delle aziende telefoniche, i portieri d’albergo. Mi danno del “tu” perfino i cessi delle stazioni (“Inserisci la moneta”). Mi danno del “tu” i politici nelle loro newsletter propagandistiche che iniziano col mio nome di battesimo, senza nemmeno un “Gentile”, o “Signora”. Il Presidente del Consiglio si congeda da me nelle mail con “un sorriso”, come se avessimo mai mangiato insieme; poi mi prega di scrivergli all’indirizzo: matteo@governo.it, col permesso implicito, si presume, di restituirgli il “tu”, tanto siamo tutti amici di Facebook. Lui, del resto, dà del “tu” ai giornalisti in conferenza stampa (deve averlo visto in House of Cards, ma in inglese non c’è il “lei”). In tutta evidenza, rifiutando per tigna generazionale le formalità forbite di un De Gasperi e rottamata la finta prossimità aziendale di B., la disintermediazione impone di adeguarsi alle maniere di un buttafuori del Cocoricò mentre ti mette il timbro sul polso.

Mi danno del “tu” i medici di primari studi del centro, forse per stabilire la giusta distanza tra me e loro dopo il boom delle lauree brevi che, non fosse altro che per la legge delle probabilità, gli imporrebbe di chiamare tutto “dottore” come i parcheggiatori abusivi. Personalmente trovo l’uso talmente scorretto e paternalistico che l’ultima volta ho ingaggiato col luminare di turno – come da targhetta prof. Tale, dermatologo – una guerra sul filo della semiotica in cui più lui si faceva prossimo a me col “tu” e chiamandomi col mio nome di battesimo, più io mi allontanavo da lui chiamandolo “Gentile Professore” ed “Esimio Primario”. Ma il tapino, lungi dal rendersi conto della natura polemica, sarcastica e, in definitiva, didattica e civile della mia condotta, viepiù si beava del suono dei suoi titoli e della mancanza de miei e si sentiva autorizzato a trattarmi come se fossi sua consanguinea e come se non nella sua professionalità, ma nell’abisso tra le nostre specializzazioni consistesse la giustifica ai 200 euro (con fattura) che gli stavo per lasciare. Che poi ero sicura, mentre quello tueggiava senza ritegno, che se lo avessi chiamato al telefono più tardi per chiedergli cosa diavolo avesse scritto sulla ricetta mi avrebbe impunemente detto: “Mi scusi, ma ci dobbiamo risentire”.

Tutta questa confidenza unidirezionale che stimati professionisti, commercialisti, chirurghi, bottegai, concierge di hotel e Presidenti del Consiglio si prendono senza il nostro consenso va ricompensata in qualche modo. Cominciamo a chiamarli tutti “Coso” . E aggiungiamo quello che Ivàn Karamazov rispose al diavolo: “Imbecille, ci mancava che mi mettessi a darti del voi”.

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