Dennis Russell Davies: Gershwin Rhapsody in Blue - Bernstein West Side Story

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    Teatro alla Scala di Milano
    Orchestra Filarmonica della Scala

     

    DENNIS RUSSELL DAVIES direttore

     

    GEORGE GERSHWIN
    ( 1898 – 1937 )
    RHAPSODY IN BLUE

    LEONARD BERNSTEIN
    ( 1918 – 1990 )
    SYMPHONIC DANCES FROM WEST SIDE STORY

     

    NEW YORK LANDSCAPES
    Luigi Di Fronzo
    Tratto dal libretto di sala dell’Orchestra Filarmonica della Scala

    Ci sono musicisti che incarnano superbamente lo spirito di un’epoca. Ne rappresentano l’essenza, amplificando il contorno spirituale e artistico con pochi tratti di umore e di penna. La ruggente Jazz Age che persino nelle storie hollywoodiane di Francis Scott Fitzgerald riscatta le zuccherose e vacue commedie tardo ottocentesche è il frutto di una possente rivoluzione. Già nel 1916 la figura centrale nella commedia The Melting pot di Israel Zangwill era quello dell’ebreo russo immigrato, che compone un’American Symphony. Il destino insomma era quello predestinato di una musica che sapesse riflettere la visione dell’America “invitante e carica di brio”, sulla quale Gershwin avrebbe chiuso il conto. E prima ancora, nel 1901 il viaggiatore britannico Frederic Harrison aveva dato una visione elettrizzante del mondo nuovo, dove l’economia scalpitava e la tecnologia stava approntando insperati orizzonti: “La vita negli Stati Uniti è una perpetua rotazione di telefoni, telegrammi, fonografi, lampade elettriche, motori, ascensori e strumenti automatici”, scrive Harrison.

    Tempo un ventennio e la Progressive Era vagheggiata da Theodore Roosvelt sarebbe divenuta una certezza. E come per la vocazione espansionistica di un paese, anche quella musicale di Gershwin sembra già ampiamente segnata: sarà stato per via delle origini (nato com’era da una famiglia povera di ebrei russi, il cognome vero è Gershovitz) e subito riscattate nel solco del tipico self made man americano. Che fosse un autore prolifico, baciato dal talento anche nella rapidità di scrittura lo ricorderà più avanti un collega più giovane di 14 anni, David Raksin, che sarebbe poi diventato autore di celebri colonne sonore per Chaplin, Preminger e Minnelli. “Gershwin era un mozartiano, nel senso che aveva la stessa qualità di talento rapido e puro di Mozart. Un melodista dalla fantasia inarrestabile, con una sublime capacità d’invenzione tematica”. Ma è con il pianoforte (“uno strumento che ha i suoi rigori, pur sapendo fare dei regali sontuosi” aggiungerà George più tardi) che si consuma il riscatto del figlio di immigrati diventato song plugger, l’arrangiatore di canzoni che in un angolo di New York chiamato Tin Pan Alley germoglia la musica commerciale. Il suo ruolo di piano pounder, di tapeur de piano per la ditta Remick & Co. – in pratica fa ascoltare i motivi ai clienti che si avventurano nei negozi della ditta - gli consente subito di familiarizzare con un materiale leggero, tutto sincopati ritmici, originali armonie ed esplosioni timbriche che riflettono la frenesia elettrizzante della New York del ventesimo secolo.

    Ci vorrà tempo per sognare una sinfonia come quella della commedia di Zangwill, magari di creare un musical eterno capace in un colpo solo di conquistare Broadway, anche se or- mai il dado è tratto. L’incontro con Ravel, a cui spesso si allude nel celebre aneddoto - “Perché volete diventare mio allievo quando già guadagnate migliaia di dollari?” risponderà il compositore francese a una richiesta esplicita di Gershwin, aggiungendovi: “sono io a dover venire a lezione da voi” – è di là da venire. Ci vorrà tempo dopo le prime canzoni su ordinazione scritte a 15 anni per arrivare alle commedie musicali destinate agli Astaire (in primo luogo Lady, Be Good) e ai simboli del successo che piacciono tanto all’americano medio: i cinque piani di un lussuoso immobile acquistato sulla 110ma strada a New York – dove si installa a piani diversi con i genitori, il fratello Ira (e la futura moglie di lui), ma dove trovano posto anche pianoforte, organo e l’immancabile biliardo – e la villa di North Robury Drive a Beverly Hills. Sarà qui che George si trasferirà negli ultimi due anni, passando il tempo libero nuotando nella piscina e giocando a tennis con Arnold Schoenberg. Forse è il clima elettrizzante di New York o quello più “oceanico” di Beverly Hills, ma la sua musica esprime già dalle prime note il meraviglioso, originalissimo ibrido di idiomi americani (ragtime, blues, jazz vero e proprio) senza tralasciare l’archetipo classico. Non solo: vi domina una cantabilità continua, un gioco fragrante, ma scorrevole, di ritmi e colori che con le avanguardie non ha molto da spartire. Poca avanguardia europea, in fondo, anche se ad esempio la venerazione per un autore come Alban Berg è in lui addirittura sconfinata.

    Il lungo e sinuoso glissando del clarinetto che sibila dal trillo sul fa basso al si bemolle acuto, celebre esordio della Rhapsody in Blue è divenuto via via il simbolo dell’America anni Venti: il fregio delle orchestrine jazz nobilitate ad una veste colta e lo stemma dei trascinanti swing intonati ai civettuoli petting parties del Great Gatsby. L’atto di nascita del jazz sinfonico, della redenzione dei canti degli ex-schiavi in un’America ancora puritana e wasp (ricevimenti in abito chiaro e farfallino d’ordinanza, un’ombra di brillantina sui capelli) è datato 12 febbraio 1924, in una sala di riferimento per la musica newyorkese, la Aeolian Hall. L’agognato accostamento di jazz e radice sinfonica - che aveva già prodotto esemplari atipici come la Rhapsodie nègre di Powell e la Jazz Sonata di Antheil (per non parlare delle citazioni più ambigue adottate da Ravel e Stravinskij) - è il frutto deliberato di un “Esperimento nella Musica Moderna” voluto dal direttore d’orchestra Paul Whiteman. Fu lui che, dopo aver adocchiato il ventiseienne autore di Blue Monday, volle offrirgli l’occasione per mostrare il suo talento sinfonico di fronte ad una platea eccellente. Così dopo un primo contatto verbale caduto nel vuoto, Gershwin si ritrovò inconsapevolmente arruolato in un articolo del “New York Herald Tribune” che reclamizzava la serata in anticipo di un mese. Per George la reazione, invece che di terrore, fu di rinnovata energia. La struttura fu pensata in poche ore, su un treno che lo portava a Boston per la prima di Sweet Little Devil: “Ero altalenato dal battito delle ruote, da quel caratteristico rumore ritmato che stimola la fantasia dei compositori... quando d’un tratto sentii, vidi sulla carta lo schema completo della Rhapsody”. In breve, Whiteman ebbe lo spartito per pianoforte e lo diede a Ferde Grofé (futuro autore della Grand Canyon Suite, resa celebre dall’incisione di Toscanini) perchè lo strumentasse per orchestra jazz. Alla prima newyorkese le personalità più disparate - Heifetz e Stokowsky, ma anche Mengelberg, Sousa, Damrosch, Stravinskij e Rachmaninov - accorsero ad applaudire, uscendone - chi più e chi meno - convinti.

    Certo che, vista di sfuggita, quest’opera che fa uso abbondante di ritmi cubani come il Clave (variante della rumba) e il Charleston merita almeno un paio di approfondimenti. Il primo è suggerito dal titolo, con quel Blue che allude al prototipo della scala blues (cromatismo fra terzo e quarto grado di una scala pentatonica minore). In realtà, Gershwin volle rifarsi anche ad un’associazione sinestetica, cara tanto al simbolismo francese quanto all’inglese Whistler, il pittore amico di Mallarmé: il blu notte come connotazione che arricchisce il panorama dei suoni, richiama i colori crepuscolari e i profumi notturni. Non solo, c’è anche l’uso di un formulario jazz, forse meno generoso di quel che può sembrare in superficie. Sotto una cupola circolare si susseguono in forma rapsodica un primo tema (inebriato di swing), un secondo (più agitato e convulso) e un terzo (il motivo blues). Tutti quanti vengono riesposti, ricapitolati e mescolati liberamente sino all’ultima affermazione del clarinetto, in coda. Ma nell’insieme la fedeltà al jazz è minata dall’assorbimento al mondo del musical e di Browdway. Indubbiamente la radice più autentica e vera per un autore come Gershwin, in un pezzo consegnato ai destini della storia: si pensi alla fortuna strepitosa attraverso innumerevoli versioni classiche (due pianoforti, pianoforti e orchestra sinfonica, due pianoforti e orchestra), ma anche agli spericolati adattamenti popolari (complesso di armoniche a bocca), cinematografici (Manhattan di Woody Allen) e radio-televisivi.

    Nemmeno tanto diversa quanto a simbolo imperituro della musica americana, stavolta del dopoguerra è la figura di Leonard Bernstein. A voler consacrare l’icona leggendaria ci pensa per lui un corredo di feticci vissuto sotto il segno dell’eccesso, in realtà probabile sintomo di inquietudine e di nevrosi: l’abbigliamento volutamente gridato, tra foulard colorati e maglioni dandy girocollo, la sigaretta perennemente fra le mani e la bottiglia di alcool come indispensabile accessorio creativo, i chiacchierati cocktail party con le Pantere Nere, i baci sulla bocca dispensati indistintamente a uomini e donne, le indiscrezioni sulla sua sessualità (sposato e padre di tre figli, ma anche occasionale consumatore di amori senza confini), i toni da intellettuale liberal impegnato a lottare contro le sofferenze e le ingiustizie del mondo. Per non entrare sin da subito nel corollario di provocazioni artistiche, prima fra tutte quella di scrivere musica a 360 gradi: non rifiutando nulla dei modelli colti e popolari del passato, e non lambendo quasi mai la moda tutta occidentale del flusso dodecafonico-seriale. Paradossalmente, l’assoluta padronanza del podio e la fama di interprete illustre (anzi di direttore statunitense che per la prima volta nella storia non si era formato nel vecchio continente), possono aver disorientato quanti si siano messi sulle tracce del percorso compositivo. Per di più, l’incredibile fortuna esecutiva di alcuni brani - primo fra tutti quella West Side Story che ha fatto il giro del mondo, in versione teatrale e cinematografica - ha confuso definitivamente le regole del gioco.

    Difficile sorvolare sugli applausi e il successo, quando la crisi delle avanguardie portava sfiducia e malessere, tenendo lontano il pubblico dalle sale da concerto. Passassero pure le acrobazie del podio, ma dietro il favore riservato alla musica non poteva che annidarsi l’accusa infamante dell’eresia. Musica troppo comunicativa, per i malpensanti e gli avari di un secolo turbolento: contaminata dallo spirito commerciale, quindi di rango inferiore. Considerazioni che hanno impedito di fare piena luce su un catalogo ben distribuito fra esperienze cameristiche, sinfoniche, di musica sacra e soprattutto di teatro. In Bernstein, questo senso dell’appartenenza musicale, questa immagine della storia musicale come tessitura inestricabile di riferimenti è sempre stato un elemento molto forte: “Un compositore è la somma totale delle sue esperienze di ascolto... più la voce e il ritmo che gli appartengono in modo specifico e che lo rendono immediatamente identificabile... Il modo in cui tutta la musica è legata insieme è meraviglioso”. Logico che quest’ottica si sia andata a rinsaldare, in modo direi clamoroso, nel panorama musicale americano del secondo dopoguerra. La dimostrazione più eloquente ci arriva, prima ancora che dall’area colta, dai fenomeni esterni: il cool jazz dei Jerry Mulligan, Miles Davis e John Lewis che si abbeverava di Bach e dei virginalisti inglesi, lo swing usato per ricreare prelibate armonie di diafana raffinatezza, e poi negli anni a venire, i confini del country and western, del rhythm and blues e dello stesso rock and roll che divengono sempre più friabili e sottili, sin quasi ad annullarsi.

    Le Danze sinfoniche dal West Side Story approntate per orchestra nel 1960 come agile rielaborazione dei temi principali del musical, seguono invece di pochi anni la stesura del lavoro originale. Ipotizzato addirittura nel 1949, durante un proficuo scambio di impressioni discusse tra il coreografo Jerome Robbins, il librettista Arthur Laurens (che aveva in mente di trarre il nuovo lavoro sull’identità sociale di gruppi rivali da un classico come Giulietta e Romeo di Shakespeare) e lo stesso Bernstein, West Side Story prese vita soltanto quando a costoro si aggiunse il poeta Stephen Sondheim. Dopo un battesimo controverso, ricevuto a Washington, National Theatre, il 19 agosto 1957, e seguìto il 26 settembre da un passaggio al Winter Garden di New York, il musical incominciò lentamente la sua marcia trionfale nell’arcipelago di Broadway: cosa che gli riservò un successo scandito da una cifra, non proprio trascurabile, di 734 repliche. La risolutiva notorietà, inevitabilmente, arrivò per mezzo del grande schermo. Nel 1961 Robert Wise, sfruttando la moda di trasferire sul grande schermo i titoli più fortunati dell’industria di musical-comedies, cara all’intellettualità newyorkese - si pensi ad Oklahoma di Hammerstein e Rodgers girato nel 1955 da Fred Zinnemann o ai successivi Mary Poppins (1963, trampolino di lancio della star inglese Julie Andrews) e My fair lady (firmato da George Cukor nel 1964) - ne decretò la definitiva consacrazione, facilitandone l’edonistica piacevolezza e il rapido consumo di massa.

    Quali furono gli elementi vincenti? Due, innanzitutto. L’aver voluto costruire una trama ricamata sulla vicenda drammatica di Giulietta e Romeo: quella di un amore contrastato dalla rivalità di due gruppi etnici - in questo caso i giovani bianchi nati negli USA, gli Jets, e un gruppo di inurbati portoricani, gli Sharks - lasciando tuttavia che alla fine trapelasse un messaggio fiducioso di pace e di riconciliazione. E poi l’aver saputo mirabilmente dosare una piacevolissima mescolanza di scritture musicali (i ritmi di danza latino-americani con il jazz delle big-band, il cool jive e i love-songs di grande effusione lirica e sentimentale) in uno spettacolo dove tutta l’azione coreografica finiva per essere governata dalla maestrìa assoluta di Robbins. Contrariamente ai casi precedenti infatti, tutti i ruoli drammatici furono scelti mettendo come requisito primario l’abilità dei danzatori. La maggior parte delle sequenze di danza sono numeri separati, ma drammaticamente significativi, e non pure e semplici appendici alla forma della canzone.

    Ma non minore importanza, appunto, assunse la straordinaria identificazione dei personaggi reali nella musica, con una ragnatela tematica di leitmotiv che alla fine risultano fortemente evocativi e facilmente memorizzabili all’ascolto (ad esempio l’intervallo di quarta eccedente o di tritono, che diviene prominente in numerosi episodi). Una musica in cui è facile individuare un arco tesissimo di grande efflorescenza neoromantica (basti pensare al dolcissimo duetto d’amore tra Tony e Maria, in Tonight), ma anche un largo utilizzo di sonorità dissonanti, con un’armonia novecentesca sempre riconducibile ad un centro tonale ben preciso, insieme ad un’orchestrazione carica di colori brillanti. A ciò, infine, va aggiunta la carica ritmica. Inesauribile. Originalissima. Sempre pronta a condurre il discorso drammaturgico, usando cliché d’uso da Trivialmusik e idiomi jazzistici che rimandano alla Rumba, al “Cha-cha”, al Mambo, e con sconfinamenti colti nel contrappunto e nelle sezioni di fugato. Musica chiara, limpidissima, di grande presa emotiva e ideale per essere danzata, che fece dire alla ballerina Diana Menuhin: “Non conosco nessun compositore contemporaneo che scriva così bene per il movimento, e che capisca altrettanto bene i gesti del corpo”.

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