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Marracash


Se c’è qualcuno che ancora vi chiede che senso abbia fare rap in Italia, che ancora vi dice che non possa esserci originalità e verità, e che nel nostro Paese non possano che esserci “ragazzi scimmia del rap”, allora a quel qualcuno fate ascoltare Marracash.

E forse aprirà gli occhi. Un basso, una batteria, un microfono, una voce. Non ci vuole molto, in fondo. Basta un’ora. No, anzi: un’ora più una vita intera.Una vita spesa nella lotta per non essere cancellato, nella resistenza per affermare la propria libertà, il proprio diritto a vivere e non soltanto a sopravvivere.

Nato nella Dogo Gang, cresciuto in periferia – non quella delle canzoni, ma quella vera, dove le ragazze sognano Paris Hilton e i maschi devono scegliere fra la strada e l’oratorio – periferia metropolitana e degradata; cresciuto al punto da saperne dare un ritratto rovente, magari sfiorando la citazione di John Fante (“Chiedi alla polvere”) e sentendosi raro come un’antilope Orice nei campi desolati della Barona. Ecco in due parole il curriculum vitae di Marracash. Che però non dice nulla della sua visione del mondo. Per capirne di più, bisogna ascoltarlo (bella scoperta!). 

E ascoltandolo scoprirete che nel bianco e nero neorealista di Marracash si riflette il mondo italiano (“Bastavano le briciole”) dell’anti-miracolo economico, la disillusione e la ri-discesa all’inferno di chi ha sognato un ettaro di paradiso piccolo-borghese e non ce l’ha fatta. 
Di chi ha giocato e ha perso – e capisce che è venuto il momento di alzarsi e lasciare il tavolo. 

Ma nei testi di Marracash non c’è solo posto per considerazioni amare sulla difficoltà di vivere; c’è anche l’orgoglio di chi ha imparato a tenere duro, e poi anche il divertimento di chi per un attimo riesce a buttarsi alle spalle la sua vita agra: se Marracash dice “nella testa c’ho un grosso bordello che fa badabum badabum cha cha” non vi sembra che sia tornato il tempo di “be-bop-a-lula she’s my baby”, quando lo scioglilingua serviva a definirsi diversi, diversi e lontani tanto dalla retorica dei testi leziosi e sdolcinati, quanto da quelli pseudo intellettuali e finto intelligenti? Pochi versi più tardi abbiamo la conferma che, al suo grido, Marracash affida il compito di liberare una rivolta contro gli stereotipi neoconformisti: “non come questi emo omo e mucho macho” dice Marra – giusto per ribadire (se ce ne fosse bisogno) che lui non si lega alla schiera dei tronisti della De Filippi o a quella di chi sogna la vita da Billionaire, né ai seguaci delle mode (musicali e no). 

Marracash sa dire tutto questo, e anche di più, lasciando all’ascoltatore la sensazione piena di un rapper che sa di dover fare musica, per poter passare l’esame – e allora ecco che le sue basi si sviluppano evitando le trappole del già sentito, dell’ovvio, del prevedibile. 
C’è sangue e anima, in questi solchi (ma si possono chiamare ancora così nell’era della musica digitale? Risposta: sì), in parole e musica. C’è il mondo di Marracash – dove trova posto anche un ospite di riguardo come J Ax (“Fattore wow”), e non importa se questo mondo, alla fine, non sembri altro che un’enorme zona franca – o un colossale bordello. Una babilonia di voci diverse, a formare un unico suono, un unico ritmo, un unico pulsante battito di cuore. Badabum, badabum cha cha.

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