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Come dire. Galateo della comunicazione - Stefano Bartezzaghi

Stefano Bartezzaghi propone un'analisi della comunicazione linguistica dal punto di vista del parlante normale, verificandone l'evoluzione attraverso esempi e aneddoti.

D. Come nasce l’idea del libro?
R. Alcuni dei miei libri li ho proposti io all’editore; in altri casi la prima proposta è venuta dall’editore, e questo è capitato anche con libri che poi mi sono apparsi molto personali. E’ il caso di Come dire. L’editore mi aveva chiesto se me la sentissi di scrivere una “grammatica” della comunicazione. Dato che penso che la comunicazione, a differenza della lingua, non abbia regole fisse e anche la lingua più che regole normative ha stili e modi d’essere, ho pensato che fosse più adeguata, oltre che più gentile, la forma del “galateo”. Ovviamente è a sua volta un galateo per modo di dire. Il titolo è un “tormentone”, uno dei più fastidiosi intercalari che alcuni ripetono ossessivamente.

D. Da Facebook a twitter, dai menu dei ristoranti ai nomi dei bambini, dal tu generalizzato al turpiloquio debordante, dai cori da stadio agli anglicismi, non tralascia nessun modo di dire per confrontarsi con il linguaggio odierno.
R. Beh, proprio tutto non c’è entrato, nel libro, tanto è vero che con l’editore stiamo pensato a una specie di seconda puntata. Ma l’idea era proprio quella di aprire l’orizzonte anche a temi che non sempre vengono trattati dai linguisti. Io ho pensato a quali fossero le esperienze più significative per un normale parlante della lingua italiana, qualcuno cioè che non la studia che a scuola e non la usa come strumento professionale primario (come accade a scrittori, giornalisti e imbonitori). I temi del libro sono venuti da lì: dare nomi ai figli, ordinare una cena al ristorante, insultare... Le cose normali, insomma.

D. Possiamo identificare dei colpevoli per questo imbarbarimento della lingua italiana e non solo di quella?
Io non ho usato termini come “imbarbarimento” o come “lingua di plastica”. So che sono cose che mettono d’accordo tutti, ma a me annoia deprecare senza vederci bene dentro. E poi l’italiano è in sé un “imbarbarimento” del latino, siamo sempre tutti i barbari di qualcun altro. La lingua che sento parlare, in media, e anche quella che leggo spesso sembrano insoddisfacenti anche a me. I fattori del cambiamento sono legati alla storia e al costume dei nostri giorni. Soprattutto vorrei segnare uno di questi fattori: la lingua viene parlata e scritta molto più di quanto succedesse un tempo; ci sono molti più “messaggi” e si sono ridotti di molto i dialetti. Per alzare lo standard linguistico c’è un rimedio di sicuro, anche se lento, effetto: migliorare la scuola pubblica, e non parlo di discutibili test di valutazione ma di risorse, aggiornamento degli insegnanti, prestigio sociale della scuola medesima.

D. Nell’ultimo capitolo del libro sostiene che per vivere  felici bisogna “fottersene” della grammatica. Sembrerebbe un controsenso dopo tutti gli esempi riportati. Come va letta questa sua esortazione?
R. Ovviamente la domanda mi imbarazza un po’. Uso quel verbo dopo essermi detto molto dispiaciuto per la frequenza del turpiloquio. E questo non per pruderie, ma per amore verso tutte le parole, ivi comprese le “brutte”. Saranno anche brutte, ma se le si usa solo una volta ogni tanto diventano potentissime: ed è quello che volevo dimostrare sperimentalmente in quella pagina. In quanto al significato di quanto dicevo, volevo solo ricordare che nessuno – salvo forse chi insegna sintassi dell’italiano – ha “in mente” la grammatica, mentre parla. Chi parla “bene” lo fa senza bisogno di pensare alla grammatica e a volte certe forme scorrette risultano più espressive di quelle corrette. L’importante è tenere presente il contesto in cui si parla e si scrive, sapere quando ci si può lasciare un po’ andare e quando è meglio curare bene le forme. Su Internet e altrove pare spiritoso, a chi è intransigente con gli errori (specie gli altrui) dichiararsi “grammar nazi”. A me non sta antipatica solo la seconda parola: anche la prima mi pare grave, se viene usata per reprimere o disprezzare.

D. Per finire a chi consiglierebbe la lettura di questo testo?
R. La domanda presuppone che io possa volerlo sconsigliare a qualcuno, il che ovviamente non è. Non per ragioni prima di tutto commerciali, ma per pura vanagloria, vorrei che lo leggessero tutti. Potrebbe, questo sì, essere deludente per chi sperasse che il libro si scagli contro gli errori o le cadute di stile. Sono troppo impegnato a sorvegliare me stesso e distogliermi dal compiere sia le une sia gli altri, e purtroppo non sempre ci riesco. L’obiettivo che indico agli altri è lo stesso che vorrei ottenere io: sbagliare meno e (come dicevano due persone di cui venero la memoria, Thelonius Monk e Samuel Beckett) “sbagliare meglio” o “fare gli errori giusti”.


Stefano Bartezzaghi (Milano, 1962) ha incominciato a occuparsi di lingua italiana come enigmista, seguendo sin da bambino una passione di famiglia (il padre, Piero, era un grande enigmista; il fratello maggiore Alessandro, è l’attuale condirettore della Settimana Enigmistica). Si è laureato con Umberto Eco e dal 1987 ha tenuto regolari rubriche di giochi con le parole, prima sulla Stampa di Torino poi, dal 2000, su Repubblica. Ha pubblicato diversi libri sulla lingua e sui giochi con le parole (il primo, Accavallavacca. Inventario delle parole da gioco, Bompiani, 1992; i più recenti, Non  se ne può più. Il libro dei tormentoni, Mondadori, 2010; Come dire. Galateo della comunicazione, Mondadori 2011; Dando buca a Godot. Giochi insonni di personaggi in cerca d’aurore, Einaudi 2012). “Come dire” è anche il titolo di una rubrica settimanale che tiene per l’Espresso e degli interventi televisivi nella trasmissione “Glob” di Enrico Bertolino (RaiTre: primavera 2012; primavera 2013) E’ professore a contratto dello Iulm di Milano, dove attualmente insegna Teorie della creatività.
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