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Carlo Bonini - la Repubblica

Carlo Bonini - la Repubblica

L’omicidio di Gugnano racconta il baratro su cui balla il Paese e, come una profezia, indica dove è destinato a terminare il viaggio di una comunità che, prigioniera della sua insicurezza,  vive immersa nella dimensione paranoica della Paura, dell’odio di prossimità, del Nemico. Che a Gugnano aveva il volto (non ancora il nome) di un est-europeo e, altrove, potrà avere quello di un migrante nord-africano. O di un “albanese”, di uno “slavo”.

Abbattere in un colpo alla schiena un uomo che ti ha appena derubato non ha nulla a che vedere con la legittima difesa. Ma somiglia più a una vendetta. Alla giustizia privata, per definizione insondabile e insindacabile, se non a “sentenza eseguita”. È la riappropriazione da parte del singolo del monopolio della forza, che, nelle democrazie, è devoluto allo Stato, perché unico legittimato a fare uso di una cornice di regole e garanzie date. Che non prevedono la pena di morte, per esempio.

Sono principi di convivenza civile ovvi. Che, come tali, dovrebbero appartenere alla coscienza di ciascuno, quali che ne siano le convinzioni politiche. In quanto tali, non revocabili in dubbio. Proprio perché fondanti le ragioni dello “stare insieme”. Al contrario, prima la voce del sindaco di Casaletto Lodigiano, quindi quella di Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, hanno voluto testimoniare che la “comunità sta con chi si difende”. Perché, in fondo, un ladro se la cerca.

Si potrebbe liquidare la sortita con un’alzata di spalle che si deve allo spettacolo indecoroso di chi non si fa scrupolo nel fare cassa con i consensi della paura e il sangue del prossimo. Ma sarebbe un errore. Perché significherebbe ignorare la profondità dello scasso prodotto con certosina e quotidiana applicazione dei populismi nelle loro diverse ma convergenti declinazioni. E significherebbe, soprattutto, abbandonare all’abbraccio con l’oscena sirena della legge del taglione, della vendetta privata, della disperazione della solitudine civica, prima ancora che repubblicana, una parte sempre più consistente del Paese che , nelle province, così come nelle periferie delle grandi aree metropolitane vive la difesa del tinello della propria casa, bottega, automobile, come ultima e definitiva trincea identitaria.

È una dinamica non inedita nella storia recente del Paese. I cosiddetti reati predatori, il senso di violazione intima che producono nelle vittime, amplificata dalla consapevolezza che quei reati non avranno in nove casi su dieci colpevoli, sono stati, nel ventennio berlusconiano, armi di propaganda e  insieme di governo. Oggi sono il carburante dei populismi.

Per la sinistra e le culture riformiste di questo Paese – se ne sono rimaste – sta suonando la campana dell’ultimo giro. Come ebbe a dire non molto tempo fa il ministro dell’Interno Marco Minniti, la sicurezza è un diritto costituzionale che può essere difeso in due modi. Comprimendo le nostre sfere di libertà, trasformando le nostre esistenze e le nostre città in ordinate galere videosorvegliate. O, al contrario, coniugando i diritti con le garanzie. Strappando alla loro solitudine le migliaia di Gugnano d’Italia. Ricostruendo quel tessuto connettivo che, nel cuore della notte, consiglia di comporre il 112 e non di imbracciare un fucile da caccia. Ma questo sarebbe il compito della Politica. Con la P maiuscola.

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