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Il Decalogo di Giuseppe Sergio

I dieci italianismi della moda

Decalogo ProGrammatica

Ecco qui dieci italianismi relativi alla moda, presentati in ordine alfabetico secondo la base di partenza italiana. Sono voci variamente rappresentative: per la diffusione in numerose lingue straniere (vedi broccato), per la notorietà o la frequenza d’uso (vedi borsalino), o anche solo per il valore documentario, come avviene per l’ormai storico lanital. In ogni caso, la propagazione internazionale dell’italianismo sottende un moto propulsivo dell’italianità o, come usa dire, del Made in Italy e dell’italian style (in inglese, ops). 

 

Ballerina

Si possono muovere i primi passi con le ballerine, le odiosamate calzature con tacco molto basso o senza tacco. Le attestazioni lessicografiche suggeriscono che la voce italiana, risalente alla fine del Quattrocento nel significato di danzatrice, si sia diffusa nel significato di moda dapprima nell’inglese (ballerina shoes, 1950) e quindi nel francese, dove avrebbe subito una riduzione al primo elemento (ballerine, 1952); da qui ce l’avrebbero restituita nel 1954. Sul cavallo inglese, all’interno del sintagma ballerina dress, la voce è però giunta fino in Giappone, dove ha infatti dato barerīna doresu.

 

Borsalino

Il famoso cappello in feltro, con tesa ridotta e nastro che cinge la calotta, prende il nome dal suo primo produttore Giuseppe Borsalino, che fin dal 1857 lo commercializzò in quel di Alessandria. Nei primi decenni del Novecento, il successo internazionale porta questo cappello e il suo nome in tutto il mondo, facendolo passare da nome depositato a nome comune. Quello che in tutto il mondo chiamano borsalino, viene definitivamente consacrato dal cinema: lo portano per esempio Humphrey Bogart in Casablanca (1942) e ancora, oltre settant’anni dopo, Leonardo Di Caprio nel Grande Gatsby (2013) ambientato negli anni Venti.

 

Broccato

Fra i più famosi e preziosi broccati – tessuti di seta pesante, lavorati con motivi in rilievo specialmente floreali – vi erano quelli prodotti in Italia durante il Rinascimento. Da quest’epoca, ricorrendo in numerose lingue, il broccato può essere considerato un vero e proprio internazionalismo. Ponendo caso alle date di prima attestazione in alcune lingue straniere, appare come il lasso di tempo dalla prima attestazione italiana (1436) si allunghi proporzionalmente alla distanza dal nostro Paese: l’it. broccato dà così il fr. brocart (1519), l’ ingl. brocade (1563-69), il ted. Brokat (1598), l’ungherese brokát (1688), il neerl. brokart (XVIII sec.), l’islandese brossía (XIX sec.). Mentre oggi le parole della moda si diffondono in modo immediato e non mediato, in passato potevano ancora camminare insieme a viaggiatori e commercianti.

 

Giubba

La voce è etimologicamente legata all’arabo ğubba ed è attestata in italiano da epoca antica: in questa forma, si trova infatti per la prima volta nel Decameron, ma vi sono anche attestazioni anteriori in altre varianti, come guba. Giubba ha avuto grande fortuna soprattutto nel francese, come dimostrano gli sviluppi semantici autonomi dell’italianismo jupe, che nei secoli è passato a indicare ‘farsetto da donna’ (nel 1188), ‘farsetto imbottito da uomo’ (ca. 1188), ‘veste da donna con il corpetto attillato e di lunghezza variabile’ (1603), ‘insieme di gonna e sottogonna’ (1665, al plur.), proseguendo anche nelle varianti tedesche Joppe e Jupe e nell’islandese hjúpa.

 

Jeans

Andando a fondo, anche questi comunissimi pantaloni portano nel DNA un po’ di Italia. La voce inglese jeans rinvierebbe infatti al francese Gênes ‘Genova’, porto ligure dove la resistente tela jean veniva originariamente impiegata per l’imballaggio delle merci e per la produzione di pantaloni da lavoro (quelli che sarebbero diventati i famosi blue-jeans, perché prevalentemente tinti di blu). Inizialmente commercializzati negli USA – nel 1873 dal tedesco Levi Strauss – come pantaloni da lavoro, solo negli anni Cinquanta del Novecento divennero popolari come capi casual, fra i giovani, grazie soprattutto al volano cinematografico di film come The Wild One - Il selvaggio (1953) con Marlon Brando o Rebel Without a Cause - Gioventù bruciata (1955) con James Dean, che li misero in moda.

 

Lanital

Oggi in pochi ricordano questa fibra artificiale simile alla lana, ottenuta dalla proteina del latte e fabbricata in Italia nel periodo dell’autarchia fascista. L’attestazione della voce in lingue come il francese, il tedesco, l’ungherese e l’inglese d’America conferma il successo internazionale delle ditte italiane nella produzione di questa fibra e di altre simili, come il terital (terilene italiano). Al lanital, ottenuto per la prima volta dall’italiano Ferretti nel 1935 e commercializzato dalla torinese Snia Viscosa a partire dal 1936, Tommaso Marinetti dedicò un prosopopeico Poema del vestito di latte (1937), pubblicato a fini pubblicitari proprio dall’Ufficio propaganda della Snia Viscosa.

 

Pantaloni

Questo è uno dei rari casi in cui la base è di originaria diffusione locale. Si parte infatti dal nome della celebre maschera veneziana Pantalon (in italiano nel 1561), che passa al francese nel 1585 e qui, dal 1651, si ritrova specializzata nel significato di ‘calzoni’. In questo significato, sviluppato per via sineddochica (il tutto, la maschera, per indicarne una parte, i calzoni), il pantalone o più spesso i pantaloni vengono restituiti all’italiano e diffusi in diverse lingue del mondo: cfr. ingl. pantaloon, ted. Pantalons, sp. pantalón, neerl. e danese pantalon, polacco pantalony, inglese d’America pants e persino, attraverso quest’ultimo, giapp. pantsu.

 

Prada

E Armani. E Versace. E Fendi e almeno un’altra dozzina di nomi di grandi marchi italiani che hanno colonizzato le vie dello shopping di tutto il mondo e che ogni giorno camminano impressi in bella mostra su magliette, cappellini e altri capi di abbigliamento, soprattutto casual. Questi nomi di marca contribuiscono a esportare il più esteso e comprensivo ‘marchio Italia’ nel mondo, anche se spesso vengono più o meno maldestramente contraffatti o, nella pronuncia, storpiati, come nel caso di Versace che un anglofono può trasformare in poco bon ton versacci.

 

Sottana

Almeno a partire dal Settecento, la moda è femmina e porta la sottana, anche se alla sua apparizione in italiano, a metà Cinquecento, la voce designava una tunica con maniche lunghe, in genere da portare sotto gli indumenti (da subtana (vestis) ‘(veste) di sotto’). La voce compare quasi simultaneamente nel francese soutane nei significati concorrenti di ‘gonna’ e di ‘veste dei preti’, ma solo quest’ultima accezione viene continuata, proprio per il tramite francese, in inglese e tedesco (Soutane). Per la stessa veste clericale gli inglesi hanno anche cassock, che pure è prestato, ma questa volta dal francese casaque.

 

Stiletto

La voce è passata dall’italiano, dove indicava e ancora pure indica un’arma bianca con punta sottile e acuminata (1521), all’inglese, dove si è specializzata come arma della seduzione femminile. Conosciuto da inizio Novecento, lo stiletto heel incontra una grande popolarità negli anni Cinquanta del Novecento, attestandosi oltremanica nel 1959 nel significato di tacco a spillo e di scarpa con tale tipo di tacco (stiletto). Dall’inglese è ripartito verso numerose lingue del mondo, fino al giapponese suchirettohīru, e verso l’italiano, dove lo abbiamo curiosamente riaccolto come anglismo: nelle riviste di moda quelli di Manolo Blahnik e di Christian Loubutine sono rigorosamente stilettos, guai a chiamarli stiletti.

 
Giuseppe Sergio 

Giuseppe Sergio insegna Linguistica italiana all’Università degli Studi di Milano. Alla lingua della moda ha dedicato la monografia Parole di moda. Il «Corriere delle Dame» e il lessico della moda nell’Ottocento (FrancoAngeli, 2010) e numerosi saggi, l’ultimo dei quali, Italianismi di moda nelle lingue del mondo, figura nel volume L’italiano e la creatività: marchi e costumi, moda e design pubblicato dall’Accademia della Crusca in occasione della Settimana della lingua italiana nel mondo.

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